Sgreccia: il mio “no” alla bioetica laicista

Intervista a mons. Elio Sgreccia

Eutanasia, aborto, provetta selvaggia. «Ciò che si fonda sul principio di autonomia è autoreferenziale, perciò, in nuce, anche antisociale». Il presidente emerito della Pontificia Accademia pro Vita e la bioetica “laicista”…

 

Eutanasia, aborto, procreazione medicalmente assistita,  clonazione, mercificazione della “materia” umana. I temi che in maniera più diretta riguardano l’uomo, la sua vita, la sua morte, la sua carne, sono entrati oramai a pieno titolo nella vulgata modernista che caratterizza la nostra civiltà occidentale, spesso però subendo uno svilimento nella loro trattazione. Svilimento inevitabile in un mondo iper-relativista dove ogni desiderio diventa diritto e tutto, perfino l’uomo, è misurabile con il metro dell’utilitarismo. Ad offrire, in controtendenza con i venti scientisti, una coscienza critica e responsabile sulle cosiddette questioni eticamente sensibili, è rimasta quasi solo la Chiesa cattolica, che si è dotata di uno strumento ad hoc: la Pontificia Accademia pro Vita, creata da Giovanni Paolo II con il motu proprio Vitae mysterium dell’11 febbraio 1994. A guidare il “comitato bioetico” della Santa Sede è stato, fino al mese scorso, monsignor Elio Sgreccia, che il 17 giugno ha comunicato a Benedetto XVI la sua rinunzia per raggiunti limiti d’età (lo ha sostituito monsignor Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense e ausiliare della diocesi di Roma). Tempi ha incontrato monsignor Sgreccia per ripercorrere con lui questi ultimi quattordici anni, caratterizzati da un intenso lavoro di studio e ricerca a stretto contatto con esperti di tutto il mondo. Marchigiano, tra i promotori dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso il Policlinico Gemelli di Roma, Sgreccia è stato segretario del Consiglio Pontificio della Famiglia. Ottantenne con una lucidità intellettuale e un’acutezza di pensiero da fare invidia, prima di cominciare a parlare dei suoi studi e delle battaglie che hanno riempito le pagine dei giornali negli ultimi anni, ci tiene a precisare che, come lo statuto dell’organismo prevedeva in origine, il primo presidente dell’Accademia Pontificia pro Vita, fu un laico: Jerome Lejeune.
«Lejeune, fu un pioniere della genetica. Nel lontano 1958 scoprì, a soli 32 anni, la prima anomalia cromosomica umana, responsabile della trisomia 21, conosciuta anche col nome di mongolismo. Nei congressi internazionali dell’epoca si prodigò non poco a difendere il diritto alla vita per il concepito. E questa posizione contro l’aborto gli costò molto sul piano intellettuale: fu a lungo censurato e tenuto in disparte. Il premio Nobel gli fu negato proprio per le sue posizioni antiabortiste. Aveva una grande sintonia con papa Giovanni Paolo II. Fu proprio assieme a lui e al cardinale Fiorenzo Angelini che ebbe l’idea di dar vita ad una accademia per la vita. Io da subito fui nominato vicepresidente. Lejeune, però, morì poche settimane dopo la sua nomina. Suo successore venne nominato sempre un laico, il biologo cileno Juan de Dios Vial Correa, e io per dieci anni feci da vice anche a lui, fino a quando sono passato a ricoprire, negli ultimi quattro anni, in via eccezionale, la carica di presidente».
Eccellenza, in questi decenni il concetto di inviolabilità della vita è andato sempre più “precarizzandosi”. Può ripercorrere, nei passaggi più significativi, il lavoro che ha svolto l’Accademia per rispondere a questo attacco all’idea di “umano”?
Potrei riassumere il nostro operato in tre momenti principali. Il primo riguarda l’identità dello statuto dell’embrione umano, sul quale siamo tornati due volte con i congressi internazionali. Il primo dopo due anni dalla nascita della fondazione, e ancora nel 2006, limitatamente all’embrione preimpiantatorio, cioè a quella fase in cui si concentrano le negazioni dell’identità dell’embrione umano. Da lì abbiamo rifatto la storia biologica e biografica di questo essere, che transita, cresce e si afferma. Un lavoro che ci ha fornito ancora una volta la possibilità di attestare che dal momento della fecondazione siamo in presenza di un essere umano nuovo e individualizzato. Naturalmente non basta la biologia per dire cos’è la persona, ma il presupposto è necessario per poi elaborare, come abbiamo fatto, le varie riflessioni filosofiche e antropologiche. Il secondo punto riguarda le cellule staminali, che sono una risorsa e una novità nella storia della medicina. Queste cellule primitive non ancora differenziate si trovano in deposito per soccorrere l’organismo dove esistono cellule logorate. Si trovano nell’organismo adulto e anche nell’embrione. Nelle primissime fasi di quest’ultimo, le cellule staminali sono in grado di produrre altri embrioni, poi quando si differenziano sono valide per più organi ma non per tutto l’organismo. Di fronte a chi si è gettato a capofitto sulle cellule dell’embrione pensando di trovarvi chissà quali tesori nascosti per curare malattie neurologiche e degenerative, noi abbiamo preso la posizione contraria: no allo sfruttamento e alla distruzione dell’embrione. In ogni caso, anche se fosse vero che quelle cellule fossero miracolose, non si può uccidere un essere umano per guarirne un altro. Abbiamo indicato come strada feconda il prelievo dall’organismo delle cellule staminali adulte (dal cordone ombelicale o dal sangue) e giornalmente si hanno notizie di successi, sia nelle ricerche sia nelle sperimentazioni, e anche nelle applicazioni cliniche. Senza vanterie o polemiche, abbiamo costruito posizioni accertate e documentate che hanno avuto il pregio di sbarazzare il campo da quei tentativi che miravano a giustificare la distruzione dell’embrione per fini terapeutici. Il terzo punto che vorrei sottolineare è quello legato alla difesa del momento finale della vita, dove l’organismo umano viene meno o nella capacità neurologico-percettiva (stato vegetativo persistente), o negli ultimi stadi di malattia, dove si cerca di giustificare l’intervento eutanasiaco. Abbiamo definito gli obblighi di assistenza, di continuità della cura, e precisato anche le terapie obbligatorie, quelle proporzionate, ordinarie e quelle vietate perché sproporzionate. È stato un lavoro in protezione del morente.
Su tutti i temi legati all’uomo, nella nostra società secolarizzata si tende a far prevalere il concetto di libertà. Si parla della libertà di morire, della libertà di avere un figlio a tutti i costi, della libertà di negare la vita a un nascituro. Crede che il problema sia legato a un’idea errata di libertà?
Certamente. La cosiddetta bioetica che si autodefinisce laica per nascondere, in realtà, il laicismo, cioè il rifiuto di Dio attraverso una visione riduttiva, temporalistica e individualistica dell’essere umano, fonda tutto sul principio di autonomia. Quest’ultimo è autoreferenziale e perciò esposto alla conflittualità sociale: quello che è autonomo e si fonda sull’io soggettivo, ovviamente, genera scelte che sono diverse da soggetto a soggetto. Esiste quindi in nuce il presupposto di una frantumazione della solidarietà umana. Questo principio è falso perché il concetto di autonomia presuppone un concetto di dipendenza. Io sono autonomo negli atti, non nell’essere. C’è un falso radicale nel concetto di autonomia. Qui si pone il problema da dove arriva il mio essere e l’interpellazione della creazione. Né il caso né l’evoluzione rispondono al quesito. Poi c’è il problema se la mia autonomia possa essere scissa dalla mia responsabilità. Nel concetto di scelta c’entra sempre una responsabilità. L’individuo è libero quando è responsabile.
Il professor Pietro Barcellona, docente di Filosofia del diritto all’Università di Catania, ex membro del Pci berlingueriano, un non credente, sostiene che il sacro è tutto ciò che non mi è dato, che non ho nelle mie disponibilità, e quando pretendo di andare a modificarlo rischio di mutare il concetto antropologico di uomo. In un suo recente libro, Barcellona afferma che il genoma umano diventerà il petrolio del nuovo millennio. Come è possibile, a suo avviso, evitare che la vita si trasformi in oggetto della speculazione?
Dovessi dare un consiglio a chi si occupa di ricerca, direi di fermarsi prima, di porsi la domanda su cosa devo ricercare e su cosa non è lecito. Il filosofo tedesco Jürgen Habermas, che non è un uomo di fede, concepisce la libertà senza basarsi su alcun assoluto e ritiene che solo il dialogo ci consenta di valutare cosa è necessario fare o non fare. Pur non concependo assoluti, è arrivato a identificare il presupposto indispensabile per la discussione: lui lo chiama “principio genetico”, cioè la necessità ineludibile di non toccare l’essere umano e la sua costituzione genetica, perché facendolo modificheremmo anche il nostro interlocutore. Su questo punto ha dialogato proficuamente anche con l’allora professor Joseph Ratzinger, e lì è necessario tornare. Se io prendo la padronanza sul tuo essere corporeo, io divento il peggior dittatore e carnefice dell’esser umano.
Ma il sistema economico e sociale in cui viviamo, le multinazionali, l’ultraliberismo sono permeabili alle leggi dell’etica?
Io dico che è necessario, è indispensabile che anche colui che segue il profitto, la globalizzazione, l’utilitarismo si chieda dove è il punto finale di tutto questo e dove si possa basare la sicurezza che quanto si sta facendo non sia contro l’uomo. Porsi questa domanda è imprescindibile per tutti.
La Chiesa cattolica su questi temi è, da sempre, coscienza critica. A volte però sembra timida. Lei ritiene che, nel corso di questi anni, la Chiesa abbia dimostrato limiti che andrebbero indagati?
Indubbiamente rispetto alle provocazioni che arrivano dalle scienze biologiche, dalle legislazioni sociali e dagli intrecci economici, a volte si può aver l’impressione che la Chiesa risponda in ritardo, che arrivi una risposta solo dopo una provocazione. Ovviamente sarebbe auspicabile che ogni volta si possa prevenire come fa il profeta, ma non sempre le condizioni reali permettono di ammonire in precedenza. Credo però che questa parte di profezia la Chiesa l’abbia sempre fatta, richiamando ai princìpi intoccabili. Il “non negoziabile”, come dice Benedetto XVI, che riguarda l’essere umano, la famiglia, la coscienza e la libertà religiosa. Sono contento di aver partecipato a questo coro, e sono felice e orgoglioso di appartenere a questa voce anticipatrice. Se fosse mio potere, direi, specialmente ai ricercatori che stanno in laboratori dove non si vede il volto dell’uomo, che ciò che si fa sugli altri ricade sempre su tutta la specie. È necessario riaffermare che l’essere umano non si può guastare o strumentalizzare, pena la caduta nel delirio superumanista.
La difesa dell’essere umano dovrebbe riguardare tutti, credenti e non. In questi anni alcuni laici hanno condotto al fianco della Chiesa una battaglia culturale molto efficace. Come Giuliano Ferrara, prima sulla legge 40 e poi con la moratoria sull’aborto.
Per me questa è la laicità forte del futuro, una laicità “maior” che riguarda chi vuole dialogare con gli uomini di fede. Certi princìpi di razionalità stanno a cuore ai cattolici e a tutti quelli che vogliono preservare all’uomo la razionalità. Senza di essa si fa dell’uomo carne da macello. Questo sviluppo della laicità che dialoga su un piano di serietà e lealtà con i cattolici è una speranza da coltivare.
Monsignore, ora che ha raggiunto i limiti d’età per incarichi istituzionali, come metterà a frutto la sua esperienza?
Voglio dedicarmi alla pastorale della vita. Io sogno questo ultimo passaggio nella mia ottantenne anzianità: mi voglio dedicare al dialogo tra fede e ragione in mezzo alla gente, cioè là dove le cose accadono. È nella famiglia che avvengono i concepimenti, gli aborti, la pianificazione delle nascite, le rotture tra amore e vita, l’educazione dei giovani. Si deve dialogare con i ricercatori e gli scienziati, ma è indispensabile comunicare anche con la gente. Se è stato possibile mettere uno stop al Far west sulla fecondazione artificiale con la legge 40 è proprio perché abbiamo dialogato con le persone.

di Fabio Cavallari
Tempi 22 Luglio 2008