LA SCIENZA CHE NON SA ESSERE SCIENTIFICA
Sulle pubblicazioni specialistiche
rispunta il fantasma del “pre-embrione”
“Le Scienze” dedica l’ultimo numero a un’analisi “spassionata” delle questioni sul tappeto. Ma il vero obiettivo è l’abrogazione della legge. Così si passano sotto silenzio dubbi e problemi e si torna a rispolverare una definizione che già da tempo è considerata un gioco di parole per giustificare sperimentazioni di ogni tipo….
“Le ragioni della scienza” è il sottotitolo dell’articolo sulla fecondazione assistita pubblicato sul numero settembrino de “Le Scienze“.
Ma a dispetto della autorevolezza della rivista, chi volesse farsi un’idea “scientifica” di quel che succede nei laboratori rimarrebbe in parte deluso. Accanto a squarci estremamente realistici si riscontrano griglie ideologiche che rischiano di invalidare l’intera pubblicazione.
Ad esempio il titolo scelto, “Sterili per legge“, dice da solo l’interesse “politico” che muove la rivista, menando fendenti alla legge sulla procreazione medicalmente assistita. E sin dalle prime righe l’articolo parla di pre-embrione, una nozione talmente poco scientifica che non viene più sollevata nemmeno dai “maghi” delle provette, tutt’al più intenti a trovare l’escamotage per aggirare la legge nel congelamento dell’ootide, vale a dire l’ovocita in cui è penetrato lo spermatozoo, ma dove non si sono ancora fusi i rispettivi patrimoni genetici.
E che il pre-embrione non esista, o per lo meno che la sua definizione sia un gioco di parole, lo ammette anche il laico Giovanni Berlinguer: “Mi pare evidente che la distinzione suggerita in Gran Bretagna dalla commissione Warnock tra preembrione (fino al 14° giorno dopo la fecondazione) ed embrione vero e proprio (dopo il 14° giorno) sia stata fortemente influenzata dalla pressante richiesta di giustificare eticamente la sperimentazione sugli embrioni” (Bioetica quotidiana, Giunti, 2000, pagina 34).
L’articolo di “Scienze” peraltro non è privo di sorprese, quando sottolinea che “le tecniche di procreazione assistita sono tuttora allo stadio sperimentale, e richiedono ancora molta ricerca: ricerca epidemiologica per l’analisi dei rischi per la madre e per i nati, e ricerca sperimentale per cercare di migliorare le tecniche”.
E ricorda che da indagini epidemiologiche sui nati da procreazione assistita (ormai quasi un milione nel mondo) emerge che “il rischio di handicap è risultato più alto nei ragazzi nati con la Fivet, anche escludendo dall’analisi i gemelli”.
Secondo altri autori il 9% dei bambini nati in provetta in Australia occidentale soffriva di almeno una malformazione congenita, contro il 4,5% presente tra i bambini concepiti naturalmente. Altri studi hanno rilevato la presenza statisticamente rilevante di “difetti del tubo neurale, atresia dell’esofago, malformazioni cardiache”.
Purtroppo anche le malattie genetiche risultano più frequenti tra i figli della provetta, senza dimenticare che – come ormai noto – con la tecnica dell’iniezione dello spermatozoo nell’ovocita (Icsi) si può facilmente trasmettere il difetto genetico del padre (sterile) al figlio. Per quanto riguarda le madri, osserva l’articolo, non sono esenti da rischi: “si sospetta che il trattamento ormonale possa provocare un aumento di tumori del tratto genitale o della mammella”.
Di fronte a questo sommario di rischi (ancora non tutti ben chiariti), ci si aspetterebbe che – rispettando il metodo scientifico – si procedesse con estrema cautela al miglioramento delle tecniche, attraverso una sperimentazione sugli animali. Visto che l’articolo riconosce che nonostante siano passati 26 anni dalla nascita di Louise Brown, la prima bambina concepita in provetta, “i dubbi sull’innocuità di queste pratiche permangono, e la loro riuscita è sempre aleatoria”.
Viceversa l’intento dell’articolo è unicamente volto a contestare la legge sulla procreazione assistita approvata a febbraio. Si sostiene che “ogni minimo dettaglio della procedura, dal momento della fecondazione in poi, ha un significato teologico” e che si guarda non a garantire la buona riuscita dell’operazione, bensì vigilare che nessun ovulo fecondato vada perduto, “una norma quasi impossibile da rispettare dal punto di vista tecnico”.
Ma questa “buona riuscita”, vale a dire “l’aumento dei successi” viene definito “il numero di nascite a termine di bambini sani per 100 cicli di trattamento ormonale iniziati”, quindi senza alcun riferimento al numero degli embrioni prodotti. Anzi, si ripete esplicitamente che la legge vieta “la scelta del pre-embrione né la sua crioconservazione”.
L’impossibilità a scegliere “i pre-embrioni più vitali” limiterebbe quindi le possibilità di successo.
In conclusione si auspica uno sforzo nella ricerca di base, che potrebbe “essere di guida per una serie di applicazioni, che vanno dai trattamenti per l’infertilità, i disturbi nella gravidanza, e le malattie dell’apparato riproduttivo all’impiego di contraccettivi, alle terapie ormonali sostitutive e alle tecnologie di riproduzione assistita”.
L’auspicio alla ricerca non può che essere condiviso, ma come ogni sperimentazione – per esempio quella dei farmaci – prevede che l’applicazione sull’uomo vada affrontata con gradualità e ragionevole sicurezza. E come ci si preoccupa delle morti legate all’assunzioni di farmaci, altrettanto dovrebbe preoccupare il fallimento “scientifico” delle tecniche di riproduzione assistita, che garantiscono a così pochi embrioni la sopravvivenza.
Non pare coerente con una ricerca “scientifica” la premessa da cui l’articolo era partito: “Non rimane che sperare in un referendum che abroghi in toto la legge 40”.
di Enrico Negrotti
Avvenire 29 settembre 2004