Sylvie Menard, sessant’anni, nata a Parigi, sposata con un figlio, è direttore del Dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto dei Tumori di Milano, dove lavora dal 1969. Ex allieva di Umberto Veronesi, attualmente fa parte del Comitato per la umanizzazione della medicina voluto dal ministro Livia Turco. Già sostenitrice dell’eutanasia, la dottoressa Menard ha dichiarato in un recente convegno a Milano che da quando si è scoperta malata la sua prospettiva su questi temi è cambiata. DIGNITÀ DEL VIVERE
Era un giorno di aprile del 2005. La dottoressa Sylvie Menard, 57 anni, direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all’Istituto dei Tumori di Milano, era alla mensa. D’improvviso un capogiro, uno svenimento. Nulla di grave, forse il bicchiere d’acqua troppo fredda che aveva appena bevuto. Comunque, i colleghi le impongono di fare un esame del sangue. Lei è tranquilla. La sua salute è ottima. Ma i risultati della elettroforesi rivelano un picco altissimo di immunoglobuline. Un esito che si spiega solo in un modo, e quel modo, un’oncologa come la Menard lo conosce benissimo. «Era il 26 aprile. Quel giorno, la donna che ero stata fino ad allora è morta. L’esame segnalava un tumore del midollo, un tumore non guaribile. A casa mi sono guardata allo specchio: impossibile, mi dicevo, io sto benissimo. Sono riuscita a addormentarmi solo quando mi sono convinta che, certamente, si trattava di un errore».
Sylvie Menard oggi ha 60 anni. Il viso abbronzato sopra il camice bianco, è al suo posto, all’Istituto dei tumori. Sembra stare benissimo, ma è costantemente in terapia. Quell’esame, non era un errore. Il cancro c’era, e di quelli per cui non c’è ancora una cura risolutiva. Sono stati tre anni di una battaglia, che continua. Sylvie Menard lavora, e fa una vita normale. Ciò che è cambiato, dice, è il suo sguardo sulla vita. Parigina, cresciuta nella Sorbona del 1968, arrivò in Italia con il matrimonio. Dal ’69 in via Venezian, allieva di Umberto Veronesi, è, dice, laica e non credente. Del suo maestro ha condiviso l’impostazione filosofica. E sull’eutanasia, è sempre stata d’accordo con lui. Fino a quando non si è trovata dall’altra parte della barricata. Malata, e di quale malattia. Allora verità e valori sono stati rivoluzionati. Tutto è cambiato: «Io , sono nata di nuovo». La scossa è stata terribile, un terremoto. Un oncologo non può illudersi, sa. E davanti a quella prognosi, il medico che per tutta la vita ha parlato di cancro si trova sbalordito e spiazzato: il nemico, ora, è addosso. «Ho conosciuto la impossibilità, d’un tratto, di fare qualsiasi progetto. Come avere davanti un muro. Il futuro, semplicemente non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le vedrò crescere».
Scopre cos’è l’attesa di una diagnosi, quando il paziente sei tu. «Il terribile tempo dell’attesa», lo chiama. Quando aspetti l’esito di una biopsia, e non pensi più a nient’altro: «Fissi il telefono, aspetti, prigioniero di una ossessione». Capisce cos’è, essere come bloccati in un limbo, quando sai che il male cammina, ma ancora non ti puoi curare. A casa, l’angoscia dei familiari. Al lavoro, i colleghi. Quelli che vengono a dirti semplicemente: conta su di me. Ma anche quelli che se ti intravvedono in fondo al corridoio svoltano l’angolo. «Ho scoperto che esiste ancora una parola tabù. È la parola cancro. C’è chi ha paura di te, come se fossi contagioso». E quando dopo venti lunghissimi giorni la terapia può partire, come con una improvvisa ribellione dice di no. Che non vuole curarsi. «Era maggio , i primi caldi. Avevo voglia di vivere quell’estate. Perchè curarmi, se tanto non posso guarire? Avevo voglia di restare ancora fra i sani». E’ un’altra notte difficile. («Quando hai un cancro – dice – quello che conta sono le notti»). Ma il giorno dopo sceglie: farà la terapia. «Qualcosa in me ha reagito. Anche senza guarire, prolungare la vita di qualche anni, improvvisamente mi è diventato fondamentale, volevo vivere fino in fondo».
Una metamorfosi attraversa la dottoressa. «E’ cambiata la consapevolezza della vita stessa. Quando sei sano, pensi di essere immortale. Quando invece la tua fine non è più virtuale, la prospettiva si capovolge. Io, il testamento biologico, da sana, lo avrei sottoscritto. Ora no. Quando hai un cancro, diventi un’altra persona, e ciò che pensavi prima non è più vero. Ciò che da sani non si capisce, è che i pazienti sono una popolazione diversa. Anche io, prima, parlavo di «dignità della vita», una dignità che mi sembrava intaccata in certe condizioni di malattia. Da sani si pensa che dovere essere lavati e imboccati sia intollerabile, “indegno”. Quando ci si ammala, si accetta anche di vivere in un polmone di acciaio. Ciò che si vuole, è vivere. Non c’è nulla di indegno in una vita totalmente dipendente dagli altri. E’ indegno piuttosto chi non riesce a vederne la dignità». Nel tunnel della chemioterapia la Menard vede tutte le certezze della sua vita smentite dalla forza della concreta realtà. Guarda con altri occhi al dibattito sull’eutanasia. Pensa a Eluana, la ragazza da molti anni in stato vegetativo che il padre vorrebbe lasciare morire. «Ma lo sappiamo, che quella ragazza non ha nessuna spina da staccare? Che l’ipotesi è quella di lasciarla morire di fame e di disidratazione? Sappiamo che “stato vegetativo permanente” non vuole dire che non c’è nessuna attività cerebrale? In un lavoro scientifico recente è stato dimostrato che se si mette davanti agli occhi di uno di questi malati una fotografia di persone care, e si fa una risonanza magnetica, si vede l’accensione di una attività cerebrale. Come si può decidere di sospendere l’alimentazione?».
Nelle parole della Menard ritrovi quella strana discrasia che noti sempre fra la realtà delle corsie e il dibattito pubblico sulla eutanasia. Dove la «morte dignitosa» è un «diritto». Nella realtà dolente dei reparti terminali, i malati invece vogliono vivere. Sylvie Menard: «Il favore di tanti all’eutanasia si spiega con una sorta di inconscio esorcismo, un volere allontanare da sè la possibilità della malattia e del dolore. È una mancanza di immedesimazione nel malato. Perchè, quando poi ti ci trovi, cambi idea» Ciò che domandano davvero i malati, dice la Menard, è di non soffrire. «Deve essere fatto tutto il possibile, contro il dolore. E in questo in Italia siamo indietro. Bisogna insegnare ai medici a usare gli oppiacei, e a non lasciare un paziente nella sofferenza per la paura di usare questi farmaci. Anche questo fa parte di un decalogo su cui lavora la Commissione per la umanizzazione della medicina, voluta da Livia Turco, di cui faccio parte».
La vera battaglia, dice, è contro il dolore. Non per una morte che, nella esperienza amplissima dell’Istituto dei Tumori, i malati «veri » non chiedono. Chiedono, invece di non essere abbandonati. «Temo che l’eutanasia possa essere la logica avanzante, se di tanti malati, quando muoiono, si dice solo: finalmente», dice la Menard. «In Olanda – aggiunge – ci sono 10 mila malati che chiedono l’eutanasia all’anno. L’80 per cento sono malati di cancro, assistiti nel migliore dei modi dal punto di vista medico. E allora, mi domando, come mai tante richieste? Ho il dubbio che sia perchè è gente sola, che avverte attorno una tacita pressione a levare il disturbo. Che avverte che, mentre viene ottimamente curata, la sua presenza è ormai di troppo. Che, se muoiono, qualcuno dirà: finalmente. E allora si adeguano, e obbediscono». Ha ricominciato a curare le sue piante. I colleghi le hanno regalato una giovanissima quercia. E’ lì nel vaso accanto alla scrivania. Ha, dice, «una nuova gerarchia di valori ». Vola a Parigi, per ogni festa di famiglia, non se ne perde più una. La domenica si siede a contemplare il suo giardino. Le pare bellissimo, e bellissima ogni mattina, qualunque numero ne resti. Ogni giorno da vivere, nessuno da sprecare.