da Roma Pier Luigi Fornari
Gli statuti regionali come grimaldello per forzare il catenaccio posto dai “padri” della nostra Repubblica a salvaguardia degli inviolabili principi della nostra carta fondamentale? Dopo l’esperienza degli orrori della seconda guerra mondiale, concepiti proprio sulla base di un’angusta concezione di positivismo giuridico, il costituente fece ricorso esplicitamente alle formulazioni del diritto naturale – in particolare a tutela della famiglia, concepita come «società naturale, fondata sul matrimonio» – rafforzandole con un criterio di modifica quantomai complesso, sancito dall’articolo 138: duplice votazione di ciascuna Camera a maggioranza assoluta, possibilità di referendum.
Di fatto, come è stato osservato dal presidente della commissione bicamerale per le questioni regionali, Carlo Vizzini, «i nuovi statuti regionali si inseriscono in una complessa trama normativa, fatta di diversi livelli costituzionali tra loro interagenti». In altri termini non solo interpretano, ma in qualche modo tendono a modificare la nostra “carta fondamentale”.
Era stata la riforma varata dall’Ulivo del titolo V della nostra Costituzione, in particolare l’articolo 123, rimasto immutato anche col cambiamento messo in cantiere dalla Casa delle Libertà, ad assegnare un rango normativo a quanto sancito negli statuti regionali. Su quest’onda, le “carte” regionali hanno notevolmente ampliato il loro raggio di influenza, non essendo più previsto il vincolo di approvazione parlamentale con legge della Repubblica né il «visto» da parte del commissario del governo.
L’unica chance che rimane in mano all’esecutivo è sollevare «la questione di legittimità costituzionale» davanti alla Consulta, entro trenta giorni dalla pubblicazione. Infatti il nuovo articolo 123 prescrive che gli statuti, siano «in armonia con la Costituzione». Ma questa condizione sembrerebbe circoscritta alla «forma governo» e ai «principi fondamentali di organizzazione e funzionamento», mentre come mostra la radiografia della normativa in atto o in corso d’opera, in gioco è qualcosa di molto più importante.
Inoltre il ricorso alla Consulta, possibile in via di principio, può non essere sempre in sintonia con la politica-politicante e dovrebbe comunque fare i conti con le maggioranze del momento.
Resta pur sempre la possibilità del referendum, ma la comunità locale è consapevole della portata delle norme varate? È vero che le procedure di approvazione ricalcano le leggi costituzionali nazionali: maggioranza assoluta dei suoi componenti, due deliberazioni ad intervallo non minore di due mesi. Ma basta questo per intaccare il dettato costituzionale italiano?
Tra i testi varati o in discussione, diversi riconoscono il ruolo primario della “famiglia”, ma persino troppo evidente è in qualche caso la volontà a porre sullo stesso piano la famiglia e le altre forme di convivenza. Inoltre il linguaggio utilizzato per la deriva etico-giuridica sembra confermare una paradossale tendenza al capovolgimento delle parti tra diritti “strutturali” della persona e sociologia “creativa”. È significativo ad esempio il fatto che lo statuto della Toscana parli di «riconoscimento» di «altre forme di convivenza». «Riconoscere» è parola a forte intensità costituzionale: si «riconosce» infatti qualcosa che viene prima delle istituzioni politiche. Inoltre, nei casi in cui non si esplicita il carattere eterosessuale di tali convivenze si apre intenzionalmente la strada alle unioni omosessuali.
Non si capiscono poi quei casi in cui si fa riferimento a resistenza e risorgimento, senza citare anche le «radici cristiane», che non solo hanno portata ben più universale e fondativa per la civiltà occidentale, ma sono anche strettamente intrecciate con la storia delle singole comunità locali.
Il riferimento al cristianesimo è esplicitato da pochi testi (ad esempio l’Abruzzo), mentre in altri statuti (come le Marche) viene genericamente menzionato «un patrimonio religioso» e, talvolta, non è neppure inserito tra i valori fondativi (ad esempio in Emilia-Romagna, che invece pone come suoi pilastri «i valori della resistenza al nazismo e al fascismo» e gli «ideali di libertà e unità nazionale del risorgimento»). Il caso della Calabria risulta a suo modo singolare in quanto la preoccupazione del legislatore si è riversata nel tutelare le minoranze religiose e nel prevedere particolari forme di cooperazione con tutte le confessioni religiose presenti sul territorio. Tutto bene, evidentemente, ma la personalità della regione dove poggia?
(C) Avvenire, 25-7-2004