Amnesty: donne turche, una su tre subisce violenza
Riccardo Noury: “Diritti umani sotto osservazione. Nelle carceri ancora torture e maltrattamenti. Questo è il Paese in cui una parlamentare che ha difeso verbalmente i curdi ha passato 15 anni in galera”.
“Non ci interessa la politica, non ci interessa l’economia, quello che chiediamo è il rispetto dei diritti umani. Sempre e dovunque”. Sono le parole di Riccardo Noury, portavoce in Italia di Amnesty International, in merito all’ingresso della Turchia in Europa.
Che cosa chiede Amnesty all’Europa e che alla Turchia?
“L’unico argomento su cui Amnesty ha preso la parola rispetto all’ingresso della Turchia nell’Unione europea è quello dei diritti umani. E in vista di quella scadenza avevamo chiesto alla Turchia di adeguare il proprio Codice penale. E, ovviamente, accanto a questo, di adeguare il comportamento delle forze di sicurezza e del personale penitenziario alle norme del diritto internazionale. In parte questo è successo, infatti su alcune questioni, una su tutte l’abolizione della pena di morte, l’altra un rilassamento notevole delle limitazioni e restrizioni riguardanti, ad esempio, la libertà di espressione e il godimento dei diritti culturali da parte della minoranza curda, sono stati fatti dei passi avanti”.
Se qualche passo avanti è stato fatto, cosa ci racconta delle torture e del non rispetto dei diritti dei carcerati?
“Un problema grosso e grave che rimane è proprio quello della tortura e dei maltrattamenti che sono ancora abbastanza frequenti all’interno delle carceri della Turchia e sui quali, oltre a esserci numerosi giudizi presso gli organismi giudiziali del Consiglio d’Europa, Amnesty ha lanciato un allarme. Continuiamo infatti a ricevere segnalazioni di casi di maltrattamenti e torture. Quindi, quello che continuiamo a chiedere a questo Paese, è che il cammino verso il miglioramento della situazione dei diritti umani rimanga costante, non ci siano passi indietro”.
E cosa vi aspettate invece dall’Europa?
“Che adotti come unico parametro di giudizio da qui agli anni a venire, quando si concluderà questa lunga procedura di valutazione, soltanto quello del rispetto dei diritti umani. Quindi che ci sia un monitoraggio costante e regolare su quelle che sono ancora le attuali preoccupazioni segnalate da Amnesty”.
Da queste segnalazioni ricevute è possibile ricavare delle cifre, anche indicative, sull’entità del fenomeno?
“È possibile con beneficio di inventario, perché la tortura, come altre violazioni dei diritti umani, è un fenomeno che emerge soltanto in parte per ragioni molto semplici. Da un lato c’è la paura delle vittime che temono, a ragione, di non essere ascoltate nella loro denuncia, e anzi di subire rappresaglie. Dall’altro esiste un meccanismo di impunità che fa sì che i torturatori rimangano quasi completamenti impuniti. Quello che possiamo dire è che, con ogni probabilità, sono centinaia i casi che ogni anno vengono registrati da Amnesty e dalle organizzazioni locali per i diritti umani. Un dato parziale ma che può indicare a grandi linee l’entità del fenomeno”.
Qual è la situazione reale in cui vivono le donne turche?
“Per noi questa è una questione particolarmente rilevante, e perfettamente in linea con la campagna mondiale sulla violenza contro le donne che, pur se indirettamente, chiama in causa lo Stato. E nello specifico il tema della violenza all’intero della propria comunità o della famiglia di appartenenza. Su questo, purtroppo, i nostri dati sono allarmanti, nel senso che, come minimo, una donna su tre in Turchia, ma secondo altre fonti, una su due, ha subìto una qualche forma di violenza fisica o psicologica all’intero delle mura di casa o della propria comunità. Con modalità molteplici: si va dalle percosse vere e proprie, alla negazione di cibo e cure, a ricatti di natura psicologica, istigazioni al suicidio”.
Il tutto indipendentemente da situazioni sociali, culturali ed economiche in cui si trovano le donne?
“Direi che questi fattori possono avere una certa incidenza sui delitti d’onore, una pratica che ha un suo triste significato culturale di supremazia di un genere sull’altro ed è legato alla moralità della famiglia di appartenenza, all’onorabilità del capofamiglia. Però casi di violenza grave, avvengono anche in contesti urbani, avanzati, nelle grandi metropoli. Il problema è che lo Stato non è autore direttamente di queste violenze, ma con la sua mancanza di qualsiasi iniziativa, è di fatto complice”.
Non si stanno facendo passi avanti in questo campo?
“La cosa buona è che proprio nei giorni in cui arrivava il primo sì condizionato dall’Europa è stato adottato un nuovo Codice penale che, da una lato ha avuto due buoni risultati. È stata respinta l’idea di criminalizzare l’adulterio e si è iniziato, con alcune disposizioni di legge, a uscire da una mentalità che non è soltanto turca ma credo di altri, come la Colombia, ad esempio. Ovvero, l’idea per cui quando lo stupro avviene all’interno delle mura domestiche è un fatto privato che non riguarda le istituzioni. Il Codice penale ora inizia a prevedere che lo stupro sia un reato a prescindere dal luogo”.
Prima aveva fatto riferimento alla “libertà culturale” della minoranza curda. Cosa intendeva dire?
“Da quando negli anni Venti del secolo scorso è stata istituita la Repubblica turca, fino alla fine degli anni Novanta, la minoranza curda è stata sottoposta a una completa restrizione delle libertà, dalla possibilità di esprimersi nella lingua curda in pubblico, ad esempio nell’insegnamento, nei colloqui fra familiari e carcerati, alla possibilità di conoscere durante i processi penali i capi d’accusa nella propria lingua. Questa è stata la situazione fino verso la seconda metà degli anni Novanta. Oggi, ad esempio, la minoranza curda può esprimersi nella propria lingua, ci sono anche delle trasmissioni televisive in lingua curda altrettante radiofoniche, è possibile seguire corsi di insegnamento, insomma il passo avanti nel rispetto del riconoscimento dei diritti della minoranza è stato accettato, anche se con molto ritardo”.
Perché tanta fatica invece nel riconoscere il genocidio degli armeni?
“È legato in buona parte alle limitazione delle libertà d’espressione che si sono avute in Turchia nel secolo scorso, oltre che a una profonda azione internazionalista. La Turchia è stata negli anni Novanta uno dei due Paesi al mondo in cui alcuni parlamentari, liberamente eletti all’Assemblea nazionale turca, erano in galera per reati di opinione. L’altra è la Birmania. Se la Turchia ha condannato a 15 anni di carcere una parlamentare che aveva semplicemente detto in Parlamento che voleva un futuro in cui i curdi vivessero in pace… Ritornando alla sua domanda, la limitazione della libertà d’espressione significa anche limitazioni di libertà di ricerca e di avere una storiografia indipendente, e tutto quello che per l’ideologia nazionalista ha significato mettere in discussione i comportamenti, anche lontani nel tempo, è stata vista come una minaccia all’integrità e sicurezza nazionale. Sia che si trattasse del genocidio degli armeni o del riconoscimento della minoranza curda. Ci vorrà del tempo. Riconoscere anche gli errori passati è una tappa di un percorso di avanzamento”.
Quanto in realtà peseranno, a suo avviso, le questioni umanitarie, rispetto a quello economiche, politiche e religiose sulle scelte europee?
“L’auspicio di Amnesty è, e resta quello, che ci si baserà solo sul rispetto dei diritti umani. Non sono ingenuo e so che altre questioni che riguardano l’economia e la cultura-religione, sono in ballo, ma ad Amnesty interesserebbe che ci si concentrasse in maniera seria sui diritti umani”.
L’ingresso sarebbe un fattore positivo, un modo per “redimere” questo Paese, oppure, sarebbe un passo indietro per l’Europa?
“Sul piano dei diritti umani, più l’Europa si allarga e più chi ci sta dentro deve rispettare dei criteri molto rigorosi, e a noi questo interessa. Noi possiamo dire che probabilmente l’Unione europea ha dei meccanismi di controllo sul rispetto dei diritti umani, un corpo di direttive in materia e in prospettiva dovrebbe dotarsi anche di organi di esame giudiziari, per cui da un punto di vista del controllo e dei mezzi di “persuasione”, ammonimento, consiglio ecc… forse starci dentro sarebbe più utile. Ma se stare dentro vuol dire soltanto avere un modo per controllare, sarebbe un po’ una sconfitta. Comunque Amnesty non caldeggia né osteggia alcuna posizione”.
Alessia Quiriconi
IL FEDERALISMO Anno 8 – Numero 38 – Lunedì 01 Novembre 2004