Un libro per uscire dalla crisi

La ricetta Tremonti

Silvio Berlusconi vuole Giulio Tremonti nel suo futuro governo. Gli affiderà il super ministero dell\’Economia, come nel suo secondo governo. Tremonti in un suo nuovo libro spiega: “La nuova politica deve essere basata su di un insieme articolato di valori. Le parole chiave che nell\’insieme definiscono una politica di questo tipo e perciò una politica opposta alla dittatura «sfascista» del relativismo, sono sette. Tre parole formano un gruppo unico, le altre stanno separate, in modo da figurare tutte insieme come quattro blocchi concettuali essenziali: valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo”.

Per gentile concessione, pubblichiamo stralci dal libro di Giulio Tremonti, ex ministro dell\’Economia di Silvio Berlusconi, in uscita per Mondadori. Il titolo del volume è "La paura e la speranza. Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla" (120 pagine, 16 Euro).

Tremonti è pronto al ritorno

«Ordine e federalismo»

 di Giulio Tremonti

La nuova politica deve essere basata su di un insieme articolato di valori. Le parole chiave che nell\’insieme definiscono una politica di questo tipo e perciò una politica opposta alla dittatura «sfascista» del relativismo, sono sette. Tre parole formano un gruppo unico, le altre stanno separate, in modo da figurare tutte insieme come quattro blocchi concettuali essenziali: valori, famiglia e identità; autorità; ordine; responsabilità; federalismo. È questo un tipo di politica che può anche essere di «grossa coalizione», ma fondata su di un catalogo di valori forti, che si articolano nei seguenti termini. Valori, famiglia e identità. Il nostro problema, in un\’età di crisi universale, è quello di conservare valori che per noi sono eterni. Rispetto al consumismo, è meglio quel che di bene resta ancora nel «romanticismo». Un esempio per tutti: il contrasto politico all\’idea postmoderna della cosiddetta «famiglia orizzontale». Non è questione di essere religiosi o laici. L\’idea della famiglia orizzontale e dei suoi strumenti contrattuali di base sublima infatti la cultura del consumismo, consente di passare, come su una piattaforma girevole, dal consumo delle cose al consumo dei rapporti, delle relazioni e dei sentimenti, in nome della nuova ideologia delle liberalizzazioni. L\’essenza delle nuove unioni civili, stilizzate come matrimoni «pop», è infatti nella banalizzazione. Non è nemmeno più necessario salire nella sala delle cerimonie del Municipio: è sufficiente fermarsi al pianterreno in sala anagrafe per fare shopping giuridico, per consumare al banco un prodotto tipico di questo tempo, immersi come moltitudine nella solitudine dell\’effimero. Un prodotto a bassa intensità morale, e per questo un prodotto che ha un plus rispetto al matrimonio religioso o civile, così démodé nella liturgia, soprattutto così carico di fastidiosi vincoli e doveri. A questa visione si oppone, e francamente va opposta, una visione antica e forte della società, fatta da principi e da doveri.

AUTORITÀ ADDIO

Autorità. È scomparsa l\’autorità. Il \’68 ha in specie portato con sé la morte dell\’autorità distruggendo con furia iconoclasta i suoi simboli di decoro, di rango e di merito. È così che i «diritti» hanno preso il posto dei «doveri». (…) Non si può abrogare per legge il \’68, ma molto si può fare anche per legge. Un esempio. Per principio, i pubblici uffici non sono al servizio degli impiegati che ci lavorano, ma dei cittadini per cui gli uffici devono lavorare. Siccome pare che le cose non vadano proprio così, l\’idea della sinistra è stata un\’idea tipica della «sinistra»: istituire una «autorità» contro i fannulloni. Tipica della sinistra, nei termini che seguono. C\’è un problema? Facciamo una legge, ma non una legge che supera il problema, una legge che lo aggira. (…)

Ordine. Il limite essenziale all\’impero dell\’or dine è nella asimmetria tra ciò che si dice, nella legge, in astratto, e ciò che si fa in concreto «applicando» la legge stessa. (…) Attualmente il binomio legge-ordine richiede dunque l\’avvio di un processo opposto: demoltiplicazione e concentrazione, invece di moltiplicazione ed espansione normativa; conoscibilità reale ed effettiva delle leggi, invece di confusione; rigore, invece di lassismo applicativo. (…)

Responsabilità. La società non è fatta solo dai diritti, ma anche dai doveri. E, sempre più spesso, dai doveri che non valgono solo perché sono imposti dalla legge, ma anche soprattutto perché sono espressione del nostro cuore, della nostra anima, del nostro senso di responsabilità. C\’è in specie una differenza fondamentale tra dire «siediti e aspetta» e dire «alzati e cammina». La prima formula è una formula legale e totalitaria. Una formula per cui, una volta assolto il tuo dovere fiscale, hai solo diritti e soprattutto sei liberato dall\’universo dei doveri sociali: dagli antichi doveri verso te stesso, verso la tua famiglia, verso la tua comunità. In base a questa formula, tutto si identifica infatti verso l\’alto, con lo Stato. È una visione totale e verticale. È una visione sbagliata. La visione giusta non è neppure quella opposta. Quella sintetizzata nel dictum thatcheriano, dialetticamente contrapposto allo statalismo della sinistra: «Non esiste la società, esistono solo gli individui». (…) La formula politica nuova e unificante è proprio in questa visione, una visione che è insieme vecchissima e nuovissima. Che è insieme sociale e morale. Una visione che sta in una parola: responsabilità. È questa la visione giusta. È questa – responsabilità – la parola giusta. Quello che c\’è ora è infatti un mondo in cui la complessità strutturale va molto oltre la semplicità tipica del primo assistenzialismo, consistente nella mera fornitura della scodella di latte in refettorio, del posto letto in ospedale, del banco a scuola. Nel mondo attuale il problema politico reale non è più infatti o non è solo quello di portare una «massa» di cittadini, calcolata in percentuale sul totale, a un dato standard di prestazioni, ma di mettere in piedi e gestire un nuovo tipo di meccanismo sociale, verificandone l\’efficacia, non tanto sull\’astratto dei grandi numeri, quanto sul concreto dei singoli casi di intervento. Casi non più indifferenziati nell\’uni verso dei «grandi numeri», ma che conservano e fanno anzi gradualmente emergere la loro propria crescente specificità. E possono dunque essere analizzati e trattati solo in questa dimensione. In questi termini, la soluzione non è, e non può più essere, solo nella pura continuazione e/o intensificazione dei meccanismi classici di intervento «di massa» e «dall\’alto verso il basso». (…) Per cominciare a cambiare non serve molta fantasia, basta non essere ciechi. Gli europei che fanno volontariato sono già molti milioni: sono milioni di nostri amici, fratelli, mariti, mogli, che volontariamente e gratuitamente fanno lavori spesso difficili, duri, sgradevoli e perciò sgraditi. Cosa vuol dire? Vuol dire tante cose. Anzitutto vuol dire che quanto lo Stato garantisce, in termini di orario di lavoro ridotto o di età di pensione anticipata, la società lo restituisce trasformando il «tempo libero» e l\’«età di riposo» in forme intense di impegno civile. La generosità dello Stato sociale è dunque compensata e restituita da una parallela generosità della società. Vuol dire che nella vita c\’è qualcosa di più del freddo calcolo delle ore, dei coefficienti, dei parametri di conto: ci sono generosità e passione, responsabilità e umanità.

IL TERZO SETTORE

Questa compagine di volontari costituisce il cosiddetto «terzo settore». Un settore che dà moltissimo e riceve pochissimo. Il primo settore (il privato) finanzia infatti il secondo (lo Stato) con grande sforzo: con la metà circa del suo prodotto. Il secondo settore riserva invece e trasferisce al terzo solo le briciole di quel che riceve. Dare così poco, viste le enormi potenzialità del terzo settore, è un errore. All\’opposto, dare di più a favore del volontariato, non sarebbe un costo, ma un investimento. Non una spesa, ma un risparmio (…). La soluzione non è dunque e non può essere più pubblico impiego nei servizi sociali e più tasse per pagarli, immaginando un\’illimitata quanto insostenibile imposizione fiscale. La soluzione è invece fuori dallo Stato, nel «comunitario». Ispirata da quello che può sembrare un «pensiero laterale», può essere «rivoluzionaria» la soluzione di estendere progressivamente anche ad altri settori il campo di applicazione di strumenti come l\’italiano «5 per mille» (o di strumenti equivalenti, come deduzioni autogestite o voci di imposta con specifico scopo etico). Rivoluzionaria non tanto perché ibrida nuovo e vecchio, filantropia e sussidiarietà, quanto perché rompe il monopolio della politica, trasferendo quote di potere e di responsabilità dallo Stato alla società. In particolare, il meccanismo del «5 per mille» può essere specificamente esteso alla ricerca scientifica, superando il «monopolio scientifico» finora proprio del dirigismo statale, favorendo e sostenendo invece l\’iniziativa e l\’impegno della società. E poi esteso via via all\’ambiente e ad altri settori vitali. Certo, si notava sopra, sono schemi che rompono l\’«unicità » del bilancio pubblico e perciò erodono il monopolio della «politica». È un male? No, è un bene. È un pezzo del futuro a cui si deve guardare per credere.

FEDERALISMO

Federalismo. Cadute le grandi ideologie, falliti i grandi sistemi politici, i popoli credono ancora, ma credono soprattutto nelle cose piccole e più concrete, nelle cose che sono loro più vicine e che sono più attuali. Credono ancora nel «domani», ma non nel «futuro»; non chiedono la riforma del sistema della sanità, ma il funzionamento del «loro» ospedale; non chiedono la riforma del lavoro, ma il «loro» posto di lavoro. Il «campanile» non può sostituire la «nazione», ma può comunque compensare l\’effetto di vuoto portato dalla crisi dello Stato-nazione. Quasi nessuno è infatti più disposto, se non a morire per la «patria», neppure a prestare il «servizio militare» obbligatorio; tutti, però, sono ancora disposti a riconoscersi identitariamente nel loro territorio e se necessario anche a difenderlo in concreto. (…) La difesa dell\’identità è in specie la difesa delle nostre identità tradizionali, storiche e di base: famiglie e «piccole patrie», vecchi usi e costumi, vecchi valori, patrimoni d\’arte e simboli della memoria. Al fondo c\’è – si ripete – qualcosa di molto più intenso che una parodia bigotta della tradizione: è un misto di paura e di orgoglio, una riserva di memoria, un retroterra arcaico e umorale; è ciò che dà il senso dei comuni rapporti sociali e dunque il senso della sicurezza. È quel senso della vita che negare o comprimere o sopprimere non solo è difficile, è dannoso. Saremo infatti più forti, nel futuro, soltanto se saremo più radicati nel nostro territorio. È così che il federalismo può sostituire il calante senso del «dovere» verso lo Stato-nazione con la forma politica di una nuova «responsabilità». Nella parte già devoluta verso l\’alto in Europa, il vuoto politico può essere compensato rafforzando il Parlamento europeo; nella parte residua può essere rafforzato proprio con l\’incremento del federalismo.

LIBERO 5 marzo 2008