Un mostro chiamato buonismo

Per i media ubriachi di pietas
uccidere un figlio non è reato

di Bruno Fasani


L’altro ieri il Tg1 ha mandato in onda il più crudo reality che si potesse immaginare. Pochi minuti, interminabili e agghiaccianti, buttati in pasto agli italiani, all’ora di cena. Il tutto in nome dell’informazione, ovviamente. Un’intervista ad un certo Calogero Crapanzano di Palermo, maestro in pensione di sessant’anni e padre di Angelo, autistico da 24 anni, dopo una meningite che lo aveva colpito a due anni di età. Da allora la vita, per la famiglia Crapanzano, era stata sempre più in salita, per via di quel ragazzo con la mania di smontare tutto e di imporre alla famiglia le leggi del proprio mondo malato.

Da qui la decisione del padre: «Dai Angelo, vieni ti porto in campagna a fare una passeggiata. Andiamo a prendere una boccata d’aria». Arrivati a Gibilrossa, la decisione estrema. «Ho preso un cavetto di acciaio, di quelli che si usano per trainare le macchine…». È il resoconto di un padre omicida. Non c’è un filo d’emozione nel raccontare questi particolari sconvolgenti, non una smorfia, una lacrima. Neppure uno schivarsi di circostanza, per sottrarsi alle telecamere e ripiegare nella privacy disperata del padre sconfitto. La televisione incombe con la sua voglia di scoop e lui sta al gioco, con l’impassibilità di un racconto liberante. La stessa lucida razionalità con cui ha trasportato nel bagagliaio il corpo di suo figlio dai carabinieri. Scattato l’arresto, il giudice Donatella Puleo, non se l’è sentita di mandarlo in carcere neppure un minuto, rispedendolo a casa dritto, dove le telecamere lo hanno raggiunto.

Quello che passa nel cuore di una famiglia toccata da una simile tragedia merita infinito rispetto. Ma, oltre il dato personale, il fatto rimane un omicidio, nella sua oggettiva gravità che non può essere stemperata dall’accondiscendenza, giornalistica o penale che sia, di una pietas che vorrebbe ridurre la questione ad un semplice caso umano.

L’Italia e il mondo sono pieni di casi umani identici o analoghi. Certo, potremmo discettare all’infinito sulla solitudine di queste famiglie o sulla legge Basaglia che ha chiuso gli ospedali psichiatrici, ma questo non legittima ancora la soppressione del malato, per quanto insopportabile.
Non si può premiare a Sanremo chi canta i «matti», il disagio e la solitudine dei malati di mente, salvo fare i buonisti ipocriti quando qualcuno li fa fuori.

Il giudice Puleo, concedendo la libertà immediata perché non esistono «esigenze cautelari», avrà pure la legge dalla sua, ma non può non considerare il messaggio subliminale di una simile scelta, come se esistessero vite di minor valore o senza valore. E la scelta di un Tg di proporre le ragioni di un padre assassino, senza alcun commento che aiuti a capire senza banalizzare la gravità del fatto, non possono giustificarsi nel nome della cronaca, come se la sofferenza del sano avesse una sua legittimità, maggiore di quella del malato. È proprio l’attenzione a quest’ultimo e la denuncia dell’indifferenza sociale nei suoi confronti, che aiuta l’informazione ad essere autentico bene sociale, evitando che si riduca a curiosare tra i fatti.

Brutta storia, quella di Palermo. Nei suoi contorni umani e, più ancora, nei suoi risvolti culturali. Nella società delle relazioni interrotte, dove la fatica è spesso il criterio discriminante per dire basta ai rapporti umani, sopprimere l’esistenza altrui potrebbe risultare la scorciatoia più breve in mano al più forte.


Il Giornale 29 giugno 2007