L’Intercollegiate Studies Institute è oggi uno dei più significativi think tank del mondo conservatore.
Diretto da T. Kenneth Cribb jr, ex consigliere agli Interni del presidente Ronald W. Reagan, presta attenzione particolare alla scuola proponendo programmi per una “educazione permanente” alternativa all’insegnamento statale.
Né rinuncia a dare consigli per la scelta di un buon istituto di studi superiori, pubblicando annualmente un volumone di più di mille pagine intitolato inequivocabilmente Choosing the Right College, “scegliere l’università giusta”.
L’edizione più recente, targata 2005, reca una prefazione di William J. Bennett, già ministro dell’Educazione con Reagan.
Come sempre, scandaglia e sfrucuglia fra i 125 migliori college statunitensi (tali secondo pubblicazioni autorevoli quali U.S. News & World Report e Money), stila classifiche e assegna punteggi.
Premiando gli istituti che più insegnano come il Cielo comanda, che meglio seguono i programmi tradizionali, che evitano le baggianate del politicamente corretto e della controcultura (i corsi sulla storia del rock’n’roll o l’educazione sessuale vista dalle starlette), che non ritengono l’anticristianesimo (per parafrasare un titolo famoso del sociologo Philip Jenkins) l’ultimo pregiudizio accettabile. E ce n’è ben donde, dato che proprio nelle università si sta sviluppando una vera e propria nuova «generazione missionaria».
Così documenta lo studio God on the Quad: How Religious Colleges and the Missionary Generation Are Changing America (St. Martin’s Press, New York) di Naomi Schaefer Riley, direttrice del trimestrale In Character (edito dalla John Templeton Foundation di West Coushohochen, Pennsylvania) e analista dell’Ethics and Public Policy Center di Washington, quello dove opera pure George Weigel, il biografo di Papa Giovanni Paolo II.
Una intellettuale, insomma, che prende atto dello stato pietoso in cui versano molti atenei statunitensi e che però decide di raccontare anche l’altra faccia della medaglia.
IL FENOMENO DELL’HOMESCHOOLING
Oggi, almeno 1,3 milioni di studenti statunitensi sono laureati presso uno dei più di 700 college religiosi del paese, e il numero di quelli che vi si iscrivono in cerca di un’alternativa al laicismo spocchioso della scuola statale è in costante aumento.
Il “Council for Christian Colleges and Universities”, per esempio, federa un centinaio d’istituti di “arti liberali” (là continuano a usare questa dizione di origine latina) che non rinunciano a fornire anche una educazione cristiana: ebbene, gli atenei aderenti hanno visto, fra 1990 e 2002, aumentare del 60 per cento il numero delle iscrizioni. E c’è dell’altro.
Il 10 per cento circa degli studenti che s’iscrivono a scuole di fede protestante evangelicale provengono da quella straordinaria esperienza tutta americana che è l’homeschooling, e in istituti cattolici come il Thomas Aquinas College di Santa Paula, California, e il Christendom College di Front Royal, Virginia, la percentuale sale rispettivamente al 20 e al 30.
Bene inteso, l’homeschooling non è il fai-da-te pasticcione di genitori che s’improvvisano maestri tuttologi, ma il fiorire di piccole associazioni, formali e informali, di genitori che si organizzano (“affittando” docenti, appoggiandosi a organizzazioni, mettendosi assieme) per fornire una educazione tradizionale completamente autogestita.
Negli Usa, infatti, è permesso.
MOTTI UNIVERSITARI
Del resto, il ministero dell’Educazione è una creazione recentissima. Indovinate la data.
Sbagliato.
È ancora più recente. 1979.
Sì, prima c’era il ministero della Salute, all’Educazione e dei Servizi sociali (che poi si è scisso), ma anche quello venne varato solo nel 1953.
L’antenato di tutto fu, nel 1867, una prima agenzia governativa per l’Educazione, poi passata due anni dopo, con il nome di Ufficio per l’Educazione, sotto il ministero degli Interni.
Era appena terminata la cosiddetta “Guerra civile” e il tutto rientrava nel quadro di quella “Ricostruzione” (così il termine tecnico) che di fatto fu una gran botta di statalismo e che tentò l’omologazione culturale del paese.
Ovvio che l’idea di una scuola pubblica fosse subito arruolata.
Nel 1939 l’Ufficio passò dunque alla Federal Security Agency (curioso, vero?) e quindi nel 1953 venne rifuso appunto nel ministero della Salute, all’Educazione e dei Servizi sociali.
Al confronto di quello che abbiamo noi, il sistema scolastico statunitense è ancora oggi una perla di libertà d’insegnamento e di decentralizzazione; eppure molto si è perso per strada.
Per esempio la memoria del fatto che, in un’epoca in cui l’educazione era totale appannaggio delle comunità locali, delle istituzioni religiose, delle asso associazioni di genitori, al massimo (ma sempre secondo una robusta logica sussidiaria) dei governi dei singoli Stati componenti l’Unione, la connotazione confessionale degli istituti d’istruzione superiore era se non un must, un classico.
Persino l’Università Harvard, il cui motto è Veritas, la più antica degli Stati Uniti, che fu fondata nel 1636 a Cambridge, Massachusetts (sedici anni dopo l’arrivo dei Padri pellegrini a Plymouth) per decisione della Great and General Court of Massachusetts Bay Colony (da quelle parti vigeva allora una “Chiesa di Stato” puritana) e il suo primo benefattore fu John Harvard, un ministro di culto di Charlestown. Tant’è che ancora oggi, nonostante abbia preso presto le distanze dal puritanesimo, Harvard conserva una prestigiosa facoltà di Teologia protestante.
Addirittura la Yale University, il cui motto è Lux et Veritas, fondata nel 1701 con il nome di Collegiate School a Killingworth, Connecticut, nella casa di Abraham Pierson jr., pastore puritano figlio di un altro noto pastore puritano (nel 1716 la scuola fu spostata a New Haven, dove ancora si trova, e, dopo un generoso contributo di tale Elihu Yale che regalò nove balle di merci assortite, 417 libri e un ritratto di re Giorgio I di Gran Bretagna, fu ribattezzata Yale College nel 1718).
È dalla scuola, dalle scuole descritte dalla Schaefer Riley che ha inizio la “Right Nation”. E poi ci si domanda, stupiti, perché il God Bless America sia un saluto abituale.
Marco Respinti
(C) Tempi.it, 21-4-2005