Dissoluzione sociale e disperazione individuale
Giovanni Formicola
L’Indipendente 13 maggio 2005
TOLLERANZA, DIRITTI, CIVILTÀ, libertà, uguaglianza. Sono parole ricorrenti negli interventi (numerosi sui mass media in questi giorni) che parlano della legge spagnola in via di approvazione, volta a legalizzare i “matrimoni” fra omosessuali. E subito, qui in Italia, c’è chi si propone di avviare lo stesso processo, magari avvalendosi della “scorciatoia” amministrativa, là dove evidentemente le giunte, se non rosse, sono almeno”rosa”. Eppure, l’elementare buon senso da solo dovrebbe essere sufficiente per considerare quanto meno stravagante anche la semplice idea di parlare di “matrimonio” a proposito dell’unione tra persone dello stesso sesso. Infatti, il matrimonio è istituzione universale – la si trova sotto ogni cielo ed in ogni tempo – anche variamente regolamentata, giammai privata di una certa sacralità e ritualità nel suo momento costitutivo, ma “sempre”ed “ovunque” prevista per l’unione potenzialmente feconda di un maschio ed una femmina. Persino gli antichi greci – che vengono spesso descritti, non senza una colorita esagerazione, dai sostenitori della “normalità” dell’inclinazione e delle pratiche omosessuali, come dei forsennati pederasti – persino loro, mai si sono sognati d’ipotizzare il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso. Né mi risulta che vi fosse alcuna Chiesa o Papa pronti a fulminare con qualche interdetto, ingerendosi nei fatti della polis, della politeia, e violandone la “laicità”, eventuali ed “illuminate” proposte avanzate in tal senso. Il che mi pare ovvio, perché la percezione naturale, e quindi razionale,della “cosa” fa della parola matrimonio la definizione del rapporto stabile (e, già in epoca precristiana, talvolta tendenzialmente indissolubile, come nel caso della confarreatio nel diritto romano) tra un maschio ed una femmina siccome idoneo a perpetuare la specie. Il resto, credo, è vaniloquio. Ma temo che il vaniloquio, quando serve a potenziare la dimensione desiderante dell’io, presto venga elevato a dignità di discorso. E la parola magica è “uguaglianza”, anzi “discriminazione”, per censurare e squalificare la posizione legata al buon senso ed all’ordine naturali, e per operare questo sortilegio:l’insensatezza che diventa norma. In realtà, “non attribuire lo statuto sociale e giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali non si oppone alla giustizia, ma, al contrario, è da essa richiesto”. E sì, perché la vera ingiustizia è trattare ugualmente situazioni radicalmente diverse ed irriducibili. Se a dirlo è la Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dall’allora cardinale Ratzinger, in un documento del 3 giugno 2003, non credo che solo per questo – in nome della religione “laicista” che pretende di porre l’opinione “clericale” hors des débats – sia meno vero. E cioè che si possa, come si chiede, istituzionalizzare un rapporto che, alla stregua dell’ordine naturale, risulta “gravemente disordinato”. Tutt’ al più, attese la (rara) chiarezza solare dell’affermazione e la fonte di essa, si deve ritenere invece che le massime istanze della Chiesa cattolica sono rimaste un po’ troppo sole dalla parte del buon senso ed a ricordare l’ordine e la legge naturali, al di fuori dei quali v’è solo la dissoluzione sociale e la disperazione individuale.
http://www.indipendenteinrete.it/admin/immagini/02-sec-1305.pdf