La rabbia del fratello di Pibiri: «Sull’Irak la sinistra mente»
Emanuela Fontana
da Roma
Alessandro Pibiri «non faceva la guerra, ma faceva il bene». Il fratello Mauro forse non avrebbe avuto il bisogno di specificarlo, se una frase non l’avesse ferito, parole pronunciate da un politico della maggioranza davanti alla bara di Alessandro quando la salma del caporal maggiore della brigata Sassari morto nell’ultimo attentato di Nassirya ha ricevuto l’omaggio delle autorità.
Le dichiarazioni di Mauro Pibiri sono un pugno nello stomaco per chi disquisisce di ritiro immediato già nelle prossime settimane delle truppe italiane: «Mio fratello ci credeva ciecamente in quello che faceva. L’ha scelto lui e siamo orgogliosi di quello che ha fatto. Voglio che tutti sappiano che i militari in Irak stanno facendo il bene, e non la guerra».
Il perché di uno sfogo del genere, Mauro lo spiega poi: «Lo dico alla faccia di qualche politico di estrema sinistra che, davanti al cadavere di mio fratello, mi ha detto: “Io l’ho sempre detto che questa guerra non andava fatta”». Il politico a cui si riferisce è Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani, che non ha saputo probabilmente cogliere le corde del dolore di questo ragazzo di 28 anni e dei suoi genitori. La teoria dell’«io l’avevo detto» è lontanissima dal consolare la sofferenza dei familiari del caporalmaggiore Alessandro. E la tempestività di Diliberto nel portare il suo lutto al Celio è passata in secondo piano: «Ho voluto manifestare per primo la mia profonda solidarietà ai familiari di Pibiri – ha rivendicato il segretario del Pdci ai giornalisti – come cagliaritano e come sardo, la loro tragedia mi colpisce. Anche io dico: portiamo via subito i nostri giovani dall’Irak. Perché questa insensata presenza sta causando lutti su lutti. Senza alcuna giustificazione. Siamo andati lì solo per obbedire a un ordine di Bush».
A un ordine del cuore, risponde invece il fratello di Alessandro Pibiri: «Io sono un ufficiale di complemento in congedo. Essere militare vuol dire dedicare la propria vita agli altri e al proprio Paese». Ma in tanti, anche tra i politici, contesta Pibiri, non sanno nulla del lavoro che si svolge a Nassirya: «Molti mi dicono che gli italiani non ci fanno niente in Irak. Invece portano acqua, luce, ricostruiscono il Paese. Mio fratello non è andato lì per saltare in aria».
Nello stesso ospedale militare, ma in reparto, sono arrivati ieri pomeriggio i quattro feriti compagni di Alessandro Pibiri, tutti della Brigata Sassari: Manuel Pilia, Fulvio Concas, Luca Daga e Yari Contu. Le autorità – il ministro della Difesa Arturo Parisi, il comandante generale dei carabinieri, generale Luciano Gottardo, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga con politici di maggioranza e opposizione – sono transitate anche dal gruppetto dei quattro per sincerarsi del loro stato di salute. Le loro condizioni, hanno assicurato i medici, «sono più che soddisfacenti». E i loro pensieri devono essere piuttosto simili a quelli del fratello del caporalmaggiore ucciso. Il padre di Luca Daga, Francesco, non ha alcun dubbio: «Se gli chiedono di andare di nuovo in Irak, ci andrà. Io ho tre figli, e sono sempre stati fuori in missioni all’estero. Loro hanno scelto questo mestiere, lo fanno con orgoglio e continueranno a farlo. Ognuno fa il proprio mestiere. Io lavoravo in miniera e rischiavo la vita».
Al Celio i quattro feriti sono stati accolti da padri e madri arrivati dalla Sardegna pieni di «orgoglio», spiega il papà di Manuel Pila, Ilario, tenente colonnello della Brigata Sassari: «Qualsiasi genitore è orgoglioso del lavoro del figlio, ma quando un militare continua la tua professione c’è qualcosa in più, soprattutto per noi sardi, legato a valori particolari, e a una brigata, come “la Sassari”, che ha dato lustro all’Italia».
(Il Giornale 09.06.2006)